Un'impresa su dieci in Italia presenta un'elevata probabilità di generare insoluti commerciali nei prossimi 12 mesi
A dirlo è CRIBIS D&B che ha realizzato uno studio sul livello di rischiosità commerciale di tutte le imprese italiane, fotografando la situazione a fine dicembre 2010. L’analisi è stata condotta partendo dall’Ecosistema CRIBIS D&B, che contiene business information costantemente aggiornate su tutte le imprese italiane.
Nell’analisi le imprese sono state ordinate su una scala da 1 a 100 e i risultati raggruppati in 4 macro categorie: rischiosità bassa, medio-bassa (ovvero inferiore alla media), media e alta.
Nell’analisi le imprese sono state ordinate su una scala da 1 a 100 e i risultati raggruppati in 4 macro categorie: rischiosità bassa, medio-bassa (ovvero inferiore alla media), media e alta.
Fonte: CRIBIS D&B
Il trend
Tra dicembre 2009 e dicembre 2010 si sono praticamente dimezzate – passando dal 10,15% di dicembre 2009 al 5,53% di dicembre 2010 - le imprese con un basso indice di rischiosità ma sono risultate in leggero calo (-1,01%) anche le imprese con rischiosità alta e quelle con rischiosità medio bassa (-1,9%).
È invece cresciuta del 7,5% la percentuale di imprese italiane con una rischiosità media di generare insoluti commerciali (46,75% del totale).
Il trend del 2010 è sostanzialmente in linea con quello dei due anni precedenti: dall’inizio del 2008, infatti, la percentuale di imprese con un livello di rischiosità medio-bassa si è progressivamente ridotta, mentre la classe con rischiosità media è cresciuta notevolmente. La percentuale di imprese ad alto rischio, invece, si è mantenuta sostanzialmente stabile. Nel 2010 è però crollata la quota di aziende a basso rischio, segnale di un ulteriore deterioramento della situazione delle imprese a causa della perdurante congiuntura economica non favorevole.

Sud più a rischio
É nel Nord Italia che si concentrano le imprese a bassa rischiosità (quasi l’8% del totale, 2 punti in più rispetto alla media nazionale) e allo stesso tempo una percentuale minore di imprese con rischiosità elevata (rispettivamente 6,10% per il Nord Est, 8% per il Nord Ovest).
Al contrario, il Meridione si caratterizzata per la quota più alta di imprese ad alta rischiosità (attorno al 13,5% del totale) a discapito di quelle a bassa rischiosità, che rappresentano appena il 2,21% nel Sud e il 3,1% nelle Isole.
É nel Nord Italia che si concentrano le imprese a bassa rischiosità (quasi l’8% del totale, 2 punti in più rispetto alla media nazionale) e allo stesso tempo una percentuale minore di imprese con rischiosità elevata (rispettivamente 6,10% per il Nord Est, 8% per il Nord Ovest).
Al contrario, il Meridione si caratterizzata per la quota più alta di imprese ad alta rischiosità (attorno al 13,5% del totale) a discapito di quelle a bassa rischiosità, che rappresentano appena il 2,21% nel Sud e il 3,1% nelle Isole.
I settori
Sono profonde le differenze dei livelli di rischiosità tra i diversi settori merceologici. Dall’analisi di CRIBIS D&B emerge come l'industria estrattiva e il comparto dei servizi finanziari presentino un maggior numero di imprese a rischiosità bassa (attorno al 16% del totale), mentre la quota minore si rileva nell'edilizia, con una quota pari appena all’1,21% del totale.
È nel commercio all'ingrosso, invece, che si concentra il maggior numero di imprese ad alta rischiosità, pari al 17,71%. All’estremo opposto, la percentuale scende drasticamente al 4,24% nell'agricoltura.
Alta rischiosità nelle piccole
Un altro elemento che incide sensibilmente sul rischio di insolvenza è la dimensione aziendale e, in particolare, le grandi imprese presentano una rischiosità decisamente inferiore rispetto alle più piccole. Per esattezza, solo il 6,72% delle grandi imprese (oltre i 250 dipendenti e i 50 milioni di fatturato) presenta un’alta rischiosità, contro il 9,87% delle micro e l’ 11,58% delle piccole imprese (sotto i 50 dipendenti e i 10 milioni di fatturato).
“Lo scenario che complessivamente emerge da questa analisi – spiega Marco Preti, amministratore delegato di CRIBIS D&B – mette in evidenza come, a 2 anni dall’inizio della crisi, le difficoltà delle imprese italiane non siano ancora superate. Al contrario, molte imprese che erano a fatica riuscite a non soccombere durante la prima fase della crisi, anche grazie all’impiego diretto di capitali propri, sono entrate in difficoltà nel corso del 2010 per l’impossibilità di apportare nuove risorse in grado di sostenere ulteriormente l’attività”.
“Questo trend è strettamente connesso ai comportamenti di pagamento commerciale delle aziende – continua Preti – e un’analisi di dettaglio ci conferma che proprio fra le aziende che avevano peggiori performance nei pagamenti si concentra il più alto livello di rischio”.
Sono profonde le differenze dei livelli di rischiosità tra i diversi settori merceologici. Dall’analisi di CRIBIS D&B emerge come l'industria estrattiva e il comparto dei servizi finanziari presentino un maggior numero di imprese a rischiosità bassa (attorno al 16% del totale), mentre la quota minore si rileva nell'edilizia, con una quota pari appena all’1,21% del totale.
È nel commercio all'ingrosso, invece, che si concentra il maggior numero di imprese ad alta rischiosità, pari al 17,71%. All’estremo opposto, la percentuale scende drasticamente al 4,24% nell'agricoltura.
Alta rischiosità nelle piccole
Un altro elemento che incide sensibilmente sul rischio di insolvenza è la dimensione aziendale e, in particolare, le grandi imprese presentano una rischiosità decisamente inferiore rispetto alle più piccole. Per esattezza, solo il 6,72% delle grandi imprese (oltre i 250 dipendenti e i 50 milioni di fatturato) presenta un’alta rischiosità, contro il 9,87% delle micro e l’ 11,58% delle piccole imprese (sotto i 50 dipendenti e i 10 milioni di fatturato).
“Lo scenario che complessivamente emerge da questa analisi – spiega Marco Preti, amministratore delegato di CRIBIS D&B – mette in evidenza come, a 2 anni dall’inizio della crisi, le difficoltà delle imprese italiane non siano ancora superate. Al contrario, molte imprese che erano a fatica riuscite a non soccombere durante la prima fase della crisi, anche grazie all’impiego diretto di capitali propri, sono entrate in difficoltà nel corso del 2010 per l’impossibilità di apportare nuove risorse in grado di sostenere ulteriormente l’attività”.
“Questo trend è strettamente connesso ai comportamenti di pagamento commerciale delle aziende – continua Preti – e un’analisi di dettaglio ci conferma che proprio fra le aziende che avevano peggiori performance nei pagamenti si concentra il più alto livello di rischio”.
“Specialmente nei momenti di difficoltà economica aumentano i rischi e le incertezze, per cui diventa fondamentale conoscere meglio le imprese con le quali si fanno affari – aggiunge Preti –. L’integrazione tra patrimonio informativo internodell’azienda, le business information e i modelli di scoring consente di monitorare la rischiositàdel proprio portafoglio clienti, valutarne l’evoluzione nel tempo e fare previsioni a breve e medio termine. Per questo ogni impresa dovrebbe integrare le proprie informazioniinterne con business information e indicatori di rischio che consentano di cogliere i cambiamenti e le criticità prima che si traducano in bilanci non positivi o, peggio, in procedure in corso. Molti problemi potrebbero essere gestiti per tempo e in modo preventivo. In uno scenario complesso come quello attuale, è quindi essenziale che le imprese adottino efficaci politiche e procedure di risk management che, attraverso strumenti adeguati, consentano di conoscere in maniera approfondita i partner commerciali, sia italiani sia esteri, con i quali instaurano rapporti commerciali, in modo da contenere le insolvenze e mantenere in equilibrio le esigenze di sviluppo del business con quelle di salvaguardia del cash flow. Allo stesso modo, sarà determinante un’oculata gestione del credito verso i clienti e della DSO (ovvero il Day Sales Outstanding) che indica il numero di giorni mediamente necessari per incassare un credito e rappresenta un elemento fondamentale della gestione del capitale circolante e, quindi, della capacità della azienda di autofinanziarsi.”